L’Odissea di marmo



Sperlonga Epigrafe-Agesandro-Atanadoro-Polidoro

Al momento della scoperta fortuita nacquero subito voci secondo cui la grotta nascondeva un secondo gruppo di Laocoonte, del tutto simile a quello dei Musei Vaticani e, benché errate, le prime impressioni non risultarono azzardate perché si basavano sulla straordinaria somiglianza stilistica intercorrente tra il Laocoonte e i frammenti di Sperlonga.
I pezzi di un’epigrafe, infatti, portavano i nomi di Agesandro, Atanodoro e Polidoro, i tre scultori del Laocoonte custodito nei Musei Vaticani. Subito apparve chiara l’importanza della scoperta. Il Laocoonte dei Musei Vaticani, ritrovato nel 1506 nelle Terme di Tito è, infatti, uno dei capolavori della scultura "barocca ellenistica", che ha avuto grande influenza sugli artisti del Rinascimento. Plinio il Vecchio lo riteneva superiore "a tutte le altre opere plastiche della scultura". Il gruppo rappresenta il famoso episodio mitologico del padre in lotta, assieme ai due figli, contro i serpenti inviati per punirlo dei suoi dubbi sul carattere divino del dono del cavallo di Troia.
Si sono dovuti attendere, poi, parecchi anni prima che il paziente lavoro di restauro restituisse l’immagine parziale di due superbi e colossali gruppi scultorei, cui si affiancano gruppi minori e statue isolate in numero tale da formare il più fastoso complesso decorativo rinvenuto di epoca romana.
I gruppi erano posti a decorazione della grotta dove l’acqua marina si incuneava secondo un regolare – preordinato – gioco di specchi d’acqua, dai quali le statue emergevano con un effetto fantasioso e drammatico.
La grotta era occupata da una grande vasca circolare, aperta verso l’esterno su un bacino quadrangolare, al cui centro, simile ad un’isola, era una vasta pedana, adoperata come triclinio per banchetti. Si possono immaginare i convitati mentre contemplavano stupefatti le meraviglie seminascoste nell’ombra della grotta, dove il leggero sciabordio delle onde sembrava magicamente dilatarsi per la naturale risonanza acustica. Le figure stesse, riflesse nell’acqua e sulle pareti della roccia con il probabile aiuto di fiaccole, dovevano aggiungere un’ulteriore spettacolare emozione.
La scena doveva essere stata delle più affascinanti e suggestive ben più fantastica di tutte le invenzioni spettacolari immaginate dai grandi registi del nostro tempo: una grande grotta percorsa dal mare, lussuosamente arredata per diventare luogo di incontri, di convivi con peschiera, triclinio, pavimento a mosaico, con le volte incrostate di lapilli.
E, lungo i bordi, imponenti gruppi scultorei che gli schiavi illuminavano con torce mentre l’imperatore Tiberio, dopo il banchetto, si faceva portare in barca da un punto all’altro della grotta, e i cantori declamavano l’Odissea.
Il complesso e spettacolare programma figurativo ha come protagonista Ulisse, il più astuto e umano tra gli eroi greci, che dopo aver varcato il Mar Egeo, era giunto ad esplorare le coste italiane e, proprio nel golfo di Gaeta, in vista del Monte Circeo, aveva vissuto – secondo la leggenda – la sua avventura più pericolosa, sfuggendo alle insidie amorose della bellissima maga Circe che aveva trasformato in animali i suoi compagni.
La grande sinfonia di Sperlonga ricorda il destino che si consuma inesorabile fino all’ascesa di Tiberio al trono dei Cesari. Tiberio commissiona tali opere per celebrare le sue origini: egli era discendente di Enea e di Iulo – rispettivamente fondatori del popolo romano e della gens Iulia – per via adottiva, ma anche discendente di Telegono, figlio di Ulisse e della maga Circe fondatore di Tuscolo da dove proveniva la gens Claudia.